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La questione nazionale e l'austromarxismo: L'esperienza di Cesare Battisti


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La questione nazionale e dell'autonomia rappresentarono uno dei principali temi di scontro delle varie forze politiche trentine nella seconda metà dell'Ottocento. L'idea dominante - non priva di contenuti post risorgimentali - era quella dello Stato unitario nazionale, contrapposto a quello sovranazionale degli Asburgo.
A quel tempo nel Tirolo italiano si erano formati numerosi circoli politici, ma tre furono i partiti che egemonizzavano il quadro politico locale.
L'Associazione liberale trentina, fondata nel 1871, che identificava la lotta per l'autonomia con la lotta per l'identità nazionale, segnando di fatto il primo passo per il distacco del Trentino dall'Austria e l'annessione all'Italia.
L'Unione politica popolare, costituita nel 1904, rappresentava invece il punto di coagulo dei cattolici trentini: in questo caso l'autonomia - come spiega Armando Vadagnini - era invocata come garanzia della "coscienza nazionale positiva", il che "significava strumento di difesa non solo dei caratteri nazionali della minoranza italiana inserita nella monarchia plurinazionale austriaca, ma anche delle realizzazioni concrete che il movimento cattolico trentino stava attuando attraverso la cooperazione e altre iniziative sociali".
Più complessa la posizione dei socialisti trentini che intorno alla fine dell'Ottocento si trovarono a dover superare una serie di contrasti interni, "alla ricerca - spiega Armando Vadagnini - di una linea di sintesi tra nazionalismo e internazionalismo. L'obiettivo era quello di liberare la questione dell'autonomia dalle strettoie localistiche per inserirla nel contesto più dinamico di una ristrutturazione dell'Austria in uno stato federale e democratico".
In questo quadro si inserisce la figura del socialista Cesare Battisti, la cui prima vera e mai sconfessata passione politica fu - per mutuare un termine dello studioso Ernesto Sestan - non tanto il socialismo, quanto l'irredentismo.
E qui si spiega - anche se non in maniera assoluta - l'atteggiamento positivo di Battisti nei confronti del nazionalismo e dell'interventismo. Mentre da un lato i socialisti austriaci si distinguevano per il loro forte internazionalismo e in quanto fautori di uno stato multinazionale, dall'altro in Cesare Battisti prevalevano i tratti della tradizione mazziniana, e il "presente di una oppressione nazionale” come scrisse Leo Valiani. Ma lo stesso Valiani precisa che le uniche due figure che nell'epoca della Seconda Internazionale avevano piena consapevolezza della necessaria unione tra socialismo e difesa nazionale furono probabilmente Jaurès e Battisti.
Senza nulla togliere all'opera e alla figura di Cesare Battisti, occorre dunque rilevare come la sua attività politica fosse contraddistinta da un fervente nazionalismo che andava contro le tendenze dei socialisti dell'epoca, fatta eccezione per quelli ungheresi. Ad esempio, nel congresso di Londra del 23 febbraio 1918, il britannico Labour Party ebbe modo di indignarsi per "le vaste pretese espansionistiche dell'imperialismo italiano in Sudtirolo e nei territori slavi".
Ora non c'è dubbio che da posizioni come quelle di Battisti, l'internazionalismo proletario dell'epoca rischiava di uscire sconfitto e rimanere soltanto un'utopia. Cosa di cui gli stessi socialisti all’epoca si rendevano conto. Scrive a questo proposito Leo Valiani: "Se guardo le cose in una prospettiva più ampia di un secolo, devo dire che avevano ragione gli internazionalisti. La guerra mondiale, quella del 1914, non risolse nulla e neanche la seconda guerra non risolse nulla, salvo che per lo meno buttò giù il fascismo e il nazismo, il che per noi è sicuramente molto.
Ma senza la prima guerra mondiale non avremmo avuto né il fascismo né il nazismo.
In una prospettiva secolare furono guerre fratricide fra nazioni europee che avevano in fondo la stessa cultura, lo stesso grado di sviluppo economico. Nessun contrasto di classe fu risolto da quelle guerre". E sottolinea ancora lo storico Valiani: "Perlomeno da una prospettiva europea gli internazionalisti avevano ragione, senza parlare dei massacri che le guerre provocarono. Soltanto che, come accade, la lunga ragione storica non sempre coincide con le ragioni contingenti del momento e questa dialettica fa si che noi possiamo valutare storicamente, senza dover patteggiare per gli uni o per gli altri, sia gli internazionalisti, sia i fautori della difesa nazionale".
Non si tratta comunque di fare un processo a posteriori a Cesare Battisti per il suo atteggiamento nazionalista. Certo è che la sua politica e la sua leadership furono determinanti a produrre uno spostamento di posizioni all'interno del socialismo trentino e non solo. Anche nella sinistra triestina, generalmente orientata verso le posizioni internazionaliste dell'austromarxismo, si verificò una sterzata in conseguenza delle posizioni assunte da Battisti.
Cosa tanto più sorprendente se si pensa che solo nel 1899, in occasione del congresso di Pola, i socialisti triestini affermavano che la questione nazionale "è solo una questione di cultura" e che "se la parte italiana dell'Austria si staccasse da questa per aggregarsi al vicino Regno, la questione nazionale della Venezia Giulia non sarebbe risolta, perchè dalle spire del centralismo di Vienna si cadrebbe in quelle del centralismo di Roma". E nel congresso dei socialisti trentini del 1900 si affermava che la "lotta autonomista doveva essere strumento per il riassetto della struttura plurinazionale dell'impero in federazioni di Stati autonomi".
Dunque anche nel partito di Battisti, almeno agli inizi del secolo, c'era la consapevolezza che una eventuale annessione all'Italia dei territori di Trento e Trieste avrebbe comportato il rischio di passare da un centralismo asburgico ad un centralismo romano, quest'ultimo forse ancora più "soffocante" di quello austriaco.
Del resto, lo stesso giovane Battisti sposò inizialmente queste tesi. Ricollegandosi a Carlo Cattaneo - scrive a questo proposito Enzo Tagliacozzo - Battisti si proponeva di ottenere autonomie linguistiche e amministrative nell'ambito dell'impero austro - ungarico trasformato in senso federale e lottava per strappare una facoltà universitaria italiana a Innsbruck e una Università italiana a Trieste.
Quando Battisti venne eletto Deputato al Reichstag di Vienna, nel 1911, non votò mai le spese militari, rifiutando la guerra come metodo per la risoluzione dei conflitti. Solo con l'avvento della crisi europea e lo scoppiò di una guerra, che egli non aveva mai voluto, Battisti - come spiega sempre Tagliacozzo - ebbe consapevolezza del suo nuovo ruolo: stendere una mano, dimenticando il passato, agli avversari politici, portare al popolo d'Italia la voce della sua terra nativa implorante soccorso e giustizia.
Una posizione che lasciò perplessi alcuni compagni di partito come Salvemini il quale - nel 1914 - scrisse ad Ernesta Battisti una lettera in cui affermava che "Battisti non deve lasciarsi sequestrare dai nazionalisti". Evidentemente i frequenti contatti che il socialista trentino teneva all'epoca con i patrioti italiani, pesarono non poco sulla formazione politica e culturale di Battisti. Scrive a questo proposito lo storico Claus Gatterer: "I tredici mesi che aveva trascorso in Italia dopo l'inizio della guerra mondiale sembravano averne fatto un centralista radicale. Questa conversione in apparenza immotivata, prevalentemente emozionale, creò negli amici di sinistra, marxisti, non poco imbarazzo.....Una più attenta analisi dimostra che siamo in presenza di una lacerazione della coscienza di Battisti, che egli era un centralista nazionale e un autonomista amministrativo nello stesso tempo, che lottavano in lui due anime politiche: la trentina e l'italiana".
Eppure Battisti non mancò di cadere in pesanti contraddizioni. Lui, che in vista di un'annessione del Tirolo all'Italia raccomandava nei confronti dei tedeschi "una politica liberale alla maniera italiana", si "arenò" in proposte a dir poco sconcertanti, frutto di quella conversione emozionale cui faceva riferimento lo storico Gatterer. Proprio Battisti che in passato "tuonava" contro i funzionari importati dall'Austria, ora proponeva "che la maggioranza di impiegati e funzionari non fosse di origine trentina, almeno nei primi anni" e che "accanto a pochi trentini in posizioni dirigenziali è bene che sieda un buon numero di italiani di altre regioni. Non dobbiamo solo grattar via tutta la pece austro tedesca che abbiamo attaccata addosso - scriveva Battisti - dovremo anche detrentinizzarci un poco. Per questo occorre trasferire (dopo la fine della guerra) gli attuali impiegati pubblici trentini in altre province italiane, affinché possano farvi un bagno di italianità".
Dunque anche lo stesso Battisti ammetteva la "non italianità" dei trentini. E il 3 settembre 1915, rispondendo ad un questionario sui più importanti problemi che sarebbero emersi dopo la fine della guerra, redatto dal circolo trentino, egli scriveva: "...Dobbiamo trasformare in italiani molti che italiani sono solo per lingua e per cuore, il cui spirito, il cui modo di pensare sono tuttavia tutt'altro che italiani. Per questo un tuffo nel milieu italiano, anche se avverrà in modo un po' repentino, non farà male".
Espressioni profetiche quelle di Cesare Battisti! Ciò che è accaduto al termine della guerra è sotto gli occhi di tutti: le pesanti immigrazioni di italiani nel Trentino e nell'Alto Adige hanno contribuito a produrre quei contrasti e quell'inimicizia ereditaria cui Gatterer ebbe modo di parlare con estrema chiarezza in un suo famoso libro.
Non c'è dubbio che le posizioni assunte da Battisti nel corso degli anni debbano comunque essere collocate all'interno di un quadro di sentimenti nazionalisti di opposta tendenza, dove la mediazione politica non era tollerata.
Rimane da chiedersi quale sarebbe stato il corso della storia se il progetto federalista dell'austromarxismo - scaturito dal congresso di Brno - fosse andato in porto. La risposta appare quanto mai difficile a causa dei soverchianti eventi storici di quel tempo.
A quel famoso congresso - che ebbe luogo il giorno di Pentecoste del 1899 - venne adottata una risoluzione che si può riassumere nei seguenti principi guida:
- L'Austria deve essere trasformata in uno Stato che rappresenti l'unione democratica delle nazionalità.
- Al posto dei territori storici della Corona devono essere create entità nazionali autonome delimitate secondo confini nazionali, alla cui legislazione e amministrazione sarà provveduto da Camere nazionali elette in base a suffragio universale libero, generalizzato, uguale per tutti e diretto.
- Le regioni autonome di una stessa nazione formano, insieme, una sola unità nazionale che decide le sue questioni in piena autonomia.
- I diritti delle minoranze nazionali verranno garantiti anche da una specifica legge che dovrà essere deliberata dal Parlamento imperiale.
- Noi non riconosciamo alcun privilegio nazionale e respingiamo quindi la richiesta d'una lingua dello Stato; il Parlamento imperiale stabilirà in che misura sarà necessaria una lingua di mediazione.
Il Congresso dichiarava inoltre di riconoscere il diritto di ogni nazionalità e all'esistenza nazionale e allo sviluppo nazionale e che i popoli possano conquistare ogni progresso della loro cultura solo in stretta solidarietà fra di loro; e che in particolare la classe operaia si attiene ai principi della fratellanza e dell'unità di lotta internazionali e deve condurre la sua battaglia politica e sindacale con unitaria compattezza.
E' ben vero che i socialisti di quell'epoca si battevano contro ogni forma di nazionalismo, ma è altrettanto vero che nell'Austria multinazionale di inizio secolo le cose erano ben diverse. Qui l'internazionalismo sembrava in parte già realizzato e quindi capace, su questa base, di perfezionarsi in senso democratico e socialista. Per questo, come sottolineava il Gatterer, proprio i socialisti - attraverso il congresso di Brno - "tentarono - riprendendo le idee accantonate del 1848 - di modernizzare questo federalismo imperfetto".
I socialisti trentini - come sottolineava Giuliano Piscel - aderirono inizialmente con entusiasmo a questo progetto. Ma se poi i sentimenti nazionali prevalsero rispetto a quelli internazionalisti e probabilmente la colpa va ricercata nelle contraddizioni dell'Impero austro ungarico e non certo nel rifiuto da parte dei socialisti trentini della cultura internazionalista. "Anziché aprirsi ad una riforma istituzionale - spiegava a questo proposito Piscel - l'Impero austro ungarico andava sempre più barricandosi nella sua antistorica struttura, nel suo conservatore autoritarismo, nella sua diffidenza. Ecco allora che la questione dell'autonomia delle province, nel senso federalistico del programma di Bruna, diventava un obiettivo remoto: e per l'ottusità della corte e della classe politica, forse incompatibile". E lo stesso autore rilevava come "la tradizionale politica di Vienna finì col provocare tendenze irredentiste, giocate sottilmente le une contro le altre: ma la conseguenza dell'espandersi di un nazionalismo alimentato dalle borghesie nazionali fu la paralisi del Parlamento e di quanto di democratico ci si poteva attendere".
Oggi - a distanza di quasi un secolo dal congresso di Brno - il programma federalista dei socialisti austro-ungarici appare comunque in tutta la sua lucidità. L'Europa delle Regioni - quella di cui oggi si parla con insistenza - non era ancora nemmeno concepita. Eppure quel progetto che raccolse attorno al tavolo popoli di diverse nazionalità, uniti in un unico Stato, rappresentò - pur con tutti i suoi limiti dovuti alle contingenze dell'epoca - un interessante e rivoluzionario laboratorio politico. Se tale progetto fosse andato in porto - e se al nazionalismo democratico i socialisti avessero opposto un sincero internazionalismo proletario - forse sarebbe profondamente mutato anche il cammino della storia. E il Trentino, terra di confine ma anche di enormi potenzialità, avrebbe potuto giocare una sua parte da protagonista nella costruzione di uno Stato federato democratico, vera e propria premessa all'Europa delle Regioni di cui tanto si discute in questo periodo.
Il progetto di Brno andava probabilmente al di là delle generiche formule riferite al binomio "socialista ma italiano", proponendosi - come riferisce lo stesso Piscel - come componente di un socialismo internazionale a difesa dei valori etnici e nazionali, componente non contrastante con l'idea internazionalista del periodo.

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